Vi ricordate di Laika? La cagnetta che venne proiettata nello spazio a bordo della capsula sovietica Sputnik 2 nel lontano novembre del 1957? Se ai giovanissimi, forse, questo nome non dice granche’, siamo sicuri che la maggior parte di noi non debba fare un grosso sforzo per riportare alla memoria la vicenda di quel primo esemplare di razza canina, che oltrepasso’ -da vivo?- l’orbita terrestre.
Altrimenti nota con i nomi di Kudrjavka e di Muttnik, come la ribattezzarono gli anglofoni contraendo le parole mutt, “bastardino”, e Sputnik, Laika, randagina meticcia, meta’ Husky e meta’ Terrier, aveva due anni e mezzo quando venne prelevata dalle strade di Mosca per essere inserita all’interno del programma di addestramento e diventare il primo cane cosmonauta.
Questa la versione che circola da sempre circa la sua provenienza; per quanto riguarda invece il metodo di selezione e i criteri con i quali si sia deciso di utilizzare proprio lei, non si ebbe mai nessuna dichiarazione ufficiale. In parte contribui’ la sua docilita’, in parte, sicuramente, la stazza minuta, che ben si adattava ai claustrofobici spazi della capsula spaziale. Fatto sta che, insieme a Mushka e Albina, due altri cagnetti scelti a caso tra i bastardini nelle vie della capitale, Laika fu la prescelta.
Ma per piccina e mansueta che fosse, Laika era pur sempre un cane e ci vollero tempo e molto lavoro per adattarla a quel viaggio. Questo il “training” al quale venne sottoposta, nella ricostruzione fatta da uno scienziato russo qualche anno fa e raccontataci da un’amica di Petpassion:
“Con le sue compagne fu inserita nel frullatore della centrifuga che le spingeva il cuore fino a tre volte il ritmo normale delle pulsazioni cardiache, nella paura e nella fatica di pompare il sangue nel corpo schiacciato dall’accelerazione gravitazionale. Aveva, pare, una tendenza a soffrire di panico, perche’ il cuore impiegava poi il triplo del tempo rispetto alle sue compagne, prima di tornare a un battito normale.
Laika e le sue compagne furono costrette ad abituarsi a vivere in gabbiette sempre piu’ piccole, imbragate in catene sempre piu’ strette, per periodi successivi di 3 settimane, e a nutrirsi solo di gelatine, l’unica pappa che avrebbero trovato a bordo, perche’ la potessero, poco alla volta, con parsimonia, leccare fino all’esaurimento e dunque alla morte.
Alla fine dell’addestramento, se cosi’ possiamo chiamare quella tortura, la vediamo nelle foto d’epoca con il muso scuro e gli occhi giustamente preoccupati, che spunta da una specie di tubo di dentrificio nero, l’ogiva nella quale sarebbe stata sparata in orbita dalla base di Baikonur, strettamente incatenata, per impedirle qualsiasi movimento.
Anche sul come e il quando della sua morte, inevitabile e decisa sin dal principio, dal momento che la missione dello Sputnik 2 non prevedeva ritorno, circolano diverse versioni. Alcuni stimano che Laika sopravvisse per circa dieci giorni (ipotesi inverosimile poiche’ le batterie che alimentavano i sistemi dello Sputnik 2 si esaurirono dopo circa sei giorni). La versione ufficiale dell’epoca data dal governo sovietico sosteneva, invece, che Laika sopravvisse per “oltre quattro giorni”.
Solo nell’ottobre del 2002 furono resi noti i risultati di nuove ricerche compiute da uno scienziato russo, Dimitri Malashenkov, che rivelarono tutt’altro scenario: con ogni probabilita’ Laika non sopravvisse a quell’esperienza piu’ di 7 ore dopo il decollo. Il suo cuore di cane prese a battere irregolarmente, fibrillando quando l’assenza di peso rallento’ di colpo le pulsazioni e alla quarta orbita il tracciato divenne misericordiosamente piatto.
Forse fu la temperatura a ucciderla o l’umidita’ che si era accumulata nel suo ansimare dentro quello spazio angusto o l’anidride carbonica che i filtri nella capsula avrebbero dovuto ripulire, ma che, probabilmente, non funzionarono a dovere. Il dottore non ne e’ sicuro.
Ma chiunque conosca un cane e abbia visto gli occhi di Laika mentre la insaccano dentro la sua gabbia, sa di che cosa e’ morta quella cagnetta, e’ morta di paura e di solitudine. Di stress, se si preferisce un’espressione più asettica”.